Gabriele D'Annunzio

Il mito da smentire del D’Annunzio fascista

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«Vigile a ogni soffio, intenta a ogni baleno, sempre in ascolto, sempre in attesa, pronta a ghermire, pronta a donare, pregna di veleno o di balsamo, […] in ogni luogo, in ogni evento, la mia anima visse come diecimila! Tutto fu ambìto e tutto fu tentato» (Laus vitae).

Sarebbe un errore voler incasellare la vita e l’opera di Gabriele D’Annunzio (Pescara, 12 marzo 1863 – Gardone Riviera, 1° marzo 1938) sotto un’etichetta rigida, come quelle a lungo attribuitegli di poeta decadente, campione dell’estetismo, intellettuale fascista. Sarebbe riduttivo o inesatto e non terrebbe conto della poliedricità dell’uomo e dell’artista, dal multiforme ingegno e dalle infinite personalità, talvolta in contrasto tra loro. D’Annunzio fu insieme vate, politico e soldato, fu letterato a tutto tondo, giornalista, poeta, romanziere e drammaturgo, fu insieme superuomo e uomo crepuscolare, intellettuale militante e pensatore disincantato, rivoluzionario e conservatore, icona dell’edonismo e pellegrino devoto nel tempio sacro della Bellezza.

Quanto alla sua caratterizzazione ideologica, alieno ad aderire a qualsivoglia visione del mondo o scuola di pensiero altrui, D’Annunzio non fu mai fascista, semmai fu un precursore delle ritualità, dell’estetica e delle parole d’ordine del regime, imitate pedissequamente dal Duce, e fu osservatore critico e perciò scomodo del fascismo negli anni del suo auto-esilio dorato al Vittoriale. Ante-fascista e poi a-fascista, costretto a un’accettazione di facciata di Mussolini, di cui rappresentava l’unico antagonista all’altezza.

Nel nome un destino

Nato subito dopo l’Unità d’Italia e morto poco prima del disfacimento del Paese con la Seconda Guerra Mondiale, D’Annunzio non fu tanto un testimone del suo tempo, ma un precursore, dotato di spirito visionario, quello a cui lui stesso alludeva definendosi, dopo l’incidente all’occhio durante il primo conflitto mondiale, Orbo Veggente. Una capacità di pre-vedere riassunta bene già nei suoi nome e cognome, Gabriele, come l’angelo messaggero, e D’Annunzio, che pare alludere a un’epifania, una rivelazione.Frontespizio del catalogo mostra

Il Vate inventò parole che sarebbero entrate nel lessico comune, anticipò con la Carta del Carnaro, la Costituzione promulgata a Fiume, un modello di democrazia all’avanguardia, rese il gesto bellico spettacolare con mosse eclatanti come la beffa di Buccari e il volo su Vienna, innovò il ruolo dell’intellettuale nei confronti delle masse e ne cambiò radicalmente i metodi di comunicazione, a mo’ di un influencer ante litteram, e pensò a un testamento duraturo e condiviso come il Vittoriale, il suo ultimo capolavoro fatto di pietre e non di parole, non tanto una casa-museo per se stesso quanto un lascito di bellezza per tutta la nazione.

Nonostante o forse a causa di questo suo sguardo capace di volgersi più avanti, più in alto e più in profondità, D’Annunzio venne ammirato, acclamato, invidiato dal suo tempo, ma mai compreso fino in fondo. Restò così un profeta inascoltato, un poeta inattuale e perciò eterno.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE: tra i romanzi, Il piacere, L’innocente, Il trionfo della morte, Le vergini delle rocce; tra i componimenti poetici, le Laudi e il Notturno; tra i drammi teatrali, La figlia di Iorio, La fiaccola sotto il moggio, La nave.

(Testo pubblicato nel catalogo “Profeti inascoltati del Novecento”, pubblicato da Italia Storica, relativo all’omonima mostra, organizzata a Genova da Domus Cultura e ideata da Miriam Pastorino e Andrea Lombardi)

photo credit: Archivio Fondazione “Il Vittoriale degli Italiani”

 

 

 

 

 

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