Vi sorprendete che Mattarella sia stato rieletto e l’assetto di potere esistente sia stato riconfermato? Be’, ma allora non conoscete l’animo degli italiani, quell’indole profonda che li porta a preferire la continuità al cambiamento, con un misto di impotenza, rassegnazione e spirito di gregge. Quello che è andato in scena sabato in Parlamento, e prima negli incontri tra i leader di partito, è una versione peggiorativa del gattopardismo così come finora inteso (e frainteso, nel senso del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa): dal «Bisogna cambiare tutto affinché nulla cambi» siamo passati al «Bisogna lasciare tutto così com’è affinché nulla cambi». Un gattopardismo ancor più pigro e imbelle, che neppure si atteggia ad ansia di rinnovamento, non ha più l’arguzia della mascherata, della messinscena e della simulazione di un passaggio di poteri, ma si limita ad aggiungere un «bis» al potere precedente, pronto ad accettarlo e legittimarlo nuovamente. Siamo alla perpetuazione (in eterno) della situazione presente, al tenersi ciò che c’è perché di meglio non si trova né si vuole cercarlo, alla paura di azzardare nuove strade, ché quelle vecchie, e sempre più vecchie in chiave anagrafica, sono più rassicuranti.
La filosofia dell’immobilismo
Così la politica svela la sua incapacità di visione e gli italiani si confermano popolo che ama poco lo Stato ma ama molto lo status quo, seguace di un’unica filosofia, l’immobilismo. Parla per noi la storia in cui non abbiamo azzardato una vera rivoluzione di piazza e pure le rivoluzioni politiche dell’ultimo trentennio, da quella liberale promessa da Berlusconi a quella populista annunciata dai 5 Stelle, si sono risolte in un nulla di fatto. Presto fallite per insipienza oppure ostacolate e assorbite dal potere. Perfino le rivoluzioni culturali, come il Sessantotto, hanno avuto impatti forti nella società e nella morale, molto meno nei partiti e nelle istituzioni. Da questo punto di vista l’Italia è un Paese in cui non si riesce a fare una rivoluzione né dal basso né dall’alto, né da parte degli eletti né da quella degli elettori. L’unica vera rivoluzione del sistema, che ha segnato la cesura tra Prima e Seconda Repubblica, è avvenuta per mezzo di un organismo altro rispetto alla politica, la magistratura, con Tangentopoli: altro sintomo del fallimento dei partiti nella loro capacità di riformarsi senza ingerenze esterne.
Ma la colpa non è solo del potere che tende ad autoperpetuarsi, e dei funzionari dell’apparato dello Stato, il cosiddetto deep state, che hanno tutto l’interesse a non causare né subire scossoni. È anche responsabilità di un atteggiamento cronico del popolo italiano, conservatore nel senso deteriore del termine perché, anche a fronte di soprusi, preferisce evitare traumi e lasciare le cose come stanno; e, rispetto al potere politico-istituzionale, si lascia blandire da figure paternalistiche, possibilmente con aura salvifica, che gli diano un vago senso di stabilità e appaiano a suoi occhi familiari.
No, il Palazzo non è tanto diverso dagli italiani, ma gli assomiglia molto: riflette ciò che gli italiani sono e vogliono. E pertanto non sbraitiamo: ce lo siamo meritato lo spettacolo indegno di questi giorni e pure il suo esito, non meno indecoroso.
Libero, 31 gennaio