Benito Mussolini in divisa

L’antifascista che salvò il giornalista del Duce

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Avatar photo Gianluca Veneziani

Che cosa spinge un uomo a prendere le difese di un personaggio scomodo e ai suoi antipodi, fino a farsene complice? Cosa porta un antifascista dichiarato a nascondere nella propria casa un intellettuale antisemita, fortemente compromesso col regime, fino a mettere a repentaglio la propria carriera, la propria reputazione e la propria vita?

È naturale chiederselo leggendo l’avvincente libro Giocatori d’azzardo (Mondadori, pp. 216, euro 22) dell’ex direttore del Messaggero Virman Cusenza, dedicato al rapporto tra l’avvocato socialista Enzo Paroli e il giornalista fascista Telesio Interlandi: vi si racconta la rocambolesca vicenda nella quale il primo si fece difensore e poi salvatore dell’altro, superando differenze ideologiche e opportunismi e ignorando le leggi in nome di un superiore senso di giustizia. È l’autunno del 1945 quando Interlandi, autorevole voce del regime durante il Ventennio, direttore dell’intransigente giornale Il Tevere e quindi della rivista La difesa della razza, fondata nel 1938 per propagandare le più radicali e becere idee antisemite, viene arrestato con l’accusa di collaborazionismo: Interlandi reputa iniqua quella misura, sostenendo di aver avuto una posizione molto marginale a Salò e di avere rifiutato incarichi ufficiali tra cui la direzione del Corriere della Sera.

Assegnato al carcere di Canton Mombello, vi incontra l’avvocato Paroli, che tra non poche titubanze ne assume la difesa. È la svolta: scarcerato per errore a seguito di un grottesco scambio di persona con il figlio, Interlandi, insieme alla famiglia, trova riparo per otto mesi e mezzo nello scantinato di casa Paroli. L’avvocato si espone a un doppio rischio: contravviene alle leggi per le quali il giornalista è diventato ufficialmente un latitante; e si presta a eventuali assalti in casa da parte di squadre partigiane interessate a catturare l’evaso. Un vero gioco d’azzardo. Ma Paroli vuole salvare Interlandi sia da un processo e un’eventuale condanna in tribunale, sia da una probabile esecuzione in strada da parte di antifascisti impegnati nella rappresaglia contro i vinti. E allora custodisce Interlandi nel suo “grembo” domestico per quasi nove mesi, fino a restituirlo alla vita e alla libertà nell’estate del 1946, subito dopo l’amnistia di Togliatti.

Le ragioni della scelta

Interlandi e Paroli

Restano tuttora un mistero le ragioni profonde della scelta di Paroli, che affascinarono molto Leonardo Sciascia, intenzionato a scriverci un libro, prima che la malattia glielo impedisse. Nonostante le diverse pubblicazioni sul tema (da In questa notte del tempo di Vincenzo Vitale a Il nero e il rosso di Tonino Zana), non si è mai definito con certezza il movente che indusse l’avvocato a quel passo coraggioso. Ed è in questo sforzo di comprensione emotiva e psicologica, prima ancora che politica, che il libro di Cusenza compie un passo fondamentale. Nel beau geste di Paroli ci fu indubbiamente la pietas verso un vinto, un uomo segnato dalla storia che aveva avuto il torto di schierarsi dalla cosiddetta parte sbagliata. Ma c’era anche un sincero garantismo in tempi di processi sommari, animato dalla convinzione che Interlandi fosse tenuto in carcere ingiustamente perché, per quanto fossero odiosissime le sue idee, non si era macchiato di alcun reato.

L’avvocato delle cause perse

E poi pesava l’animo anticonformista di Paroli, la sua volontà di far bastian contrario e non assecondare lo spirito del tempo, ma combattere le battaglie più impopolari, a costo di guadagnarsi discredito e riprovazione. Che fosse un avvocato delle cause perse, un avvocato del diavolo o piuttosto un eroe degli ultimi, Paroli, come nota Cusenza, partiva dal presupposto che «il diritto alla difesa non lo si deve negare a nessuno, neppure a colui la cui condanna potrebbe suscitare un facile applauso popolare». Attratto dagli opposti, l’avvocato socialista era stato del resto amante di Angiolina Sorlini, sorella dello squadrista più spietato di Brescia. Costantemente riottoso a lisciare il potere, Paroli aveva sì avversato le camicie nere al tempo del regime, al punto da finire in carcere, ma aveva anche fiutato nell’immediato Dopoguerra il tradimento dell’idea di giustizia, presto divenuta rivalsa, e respinto l’insopportabile divisione manichea tra Buoni e Cattivi.

Ciò che sorprende agli occhi di noi contemporanei è la purezza del suo gesto, la gratuità del suo sostegno a un uomo in difficoltà, senza inseguire interessi personali, anzi con la prospettiva concreta di vederli sacrificati. La sua obiezione alle leggi vigenti va perciò intesa come un atto nobile di ribellione etica e disobbedienza civile, a mo’ di un’Antigone del Novecento, e la sua solidarietà umana come un gesto di amore quasi divino. Una scommessa estrema, un sommo azzardo che ha consentito a Paroli non solo di salvare alcune vite ma anche di salvarsi l’anima.

Libero, 8 gennaio 2022

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