Le gomme che fanno viaggiare l’Italia

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Scrivi Pirelli e pensi agli pneumatici, al calendario, allo sponsor di squadre e manifestazioni sportive. Ma in quel nome e in quel logo morbido con la P allungata, tale da sembrare quasi di gomma, si racchiude soprattutto una storia che mescola umanesimo e tecnologia, laboriosità lombarda, talento italico e visione internazionale. Un secolo e mezzo di moltitudine (di successi) che ieri è stato celebrato in grande stile presso il Piccolo Teatro di Milano, in occasione dei 150 anni dell’azienda, con un evento-spettacolo condotto da Ilaria D’Amico, al quale hanno preso parte l’ad di Pirelli Marco Tronchetti Provera, l’erede della dinastia e imprenditore Alberto Pirelli, i giornalisti Paolo Mieli e Ferruccio De Bortoli, la pubblicitaria Annamaria Testa, l’ad della Formula 1 Stefano Domenicali, l’architetto Renzo Piano e il rettore del Politecnico di Milano Ferruccio Resta.

Parlare di quest’azienda significa in primo luogo raccontare l’intuizione geniale avuta dal suo fondatore, Giovanni Battista Pirelli, già garibaldino e combattente nella Terza Guerra d’Indipendenza, che il 28 gennaio 1872 decise di aprire a Milano, in zona Ponte Seveso (dove oggi sorge il Pirellone), un primo opificio di 1.000 mq per la lavorazione del caucciù, allo scopo di creare tele gommate, cinghie di trasmissione, isolanti per telegrafi e cavi. Sarà solo tra fine ‘800 e inizio ’900 che l’attività sarà convertita nella produzione di gomme prima per biciclette e motociclette, poi per autovetture. Sono le prime scommesse visionarie dell’azienda, portate avanti nei decenni successivi dai figli di Giovanni Battista, Alberto e Piero, e dal nipote Leopoldo: a inizio ’900 la Pirelli diventerà una delle prime aziende italiane multinazionali, con sedi in Argentina e Brasile, si quoterà in Borsa nel 1922 e a Wall Street nel 1929, provvederà a un’organizzazione del lavoro all’avanguardia tra anni ’20 e ’30 e metterà a punto tecniche innovative di produzione della gomma sintetica a fine anni ’30, grazie al contributo del futuro premio Nobel Giulio Natta.

Successi e passaggi a vuoto

Ma sarà soprattutto nel 1951 che la Pirelli compirà la vera rivoluzione, progettando il Cinturato, pneumatico che consentirà una svolta in termini di velocità, efficienza e sicurezza degli spostamenti su strada. «Fu quello l’esordio del boom economico italiano, che sarebbe esploso solo alla fine degli anni ’50», rileva Paolo Mieli. «Questo dato dimostra la capacità dei Pirelli di anticipare in maniera visionaria i tempi». E di diventare insieme ai “gemelli” Agnelli i protagonisti (in auto) del miracolo italiano. In quest’ottica di lungimiranza si possono leggere anche la riforma della Confindustria promossa da Leopoldo Pirelli negli anni ’70, il fiuto dell’azienda per lo sport, testimoniato dalla sponsorizzazione per lungo tempo nel calcio e tuttora nella vela, e dal suo ruolo di fornitore unico di pneumatici per la Formula 1 a partire dal 2011, e l’attenzione per la bellezza (vedi il calendario o l’avveniristica “spina” nello stabilimento di Settimo Torinese, realizzata da Piano).

Quella di Pirelli non è però solo una storia di successi, ma anche di passaggi storici difficili, intoppi e fallimenti. L’azienda attraversa due guerre mondiali e opera al tempo del fascismo, riuscendo a stabilire con esso una convivenza non sempre facile ma intelligente che consente ad Alberto Pirelli di far crescere la produzione e promuovere il marchio nel mondo, ma anche di prendere le distanze dall’entrata in guerra con Hitler («La caratteristica dell’azienda è stata sempre quella di guardare al futuro nel rispetto dei ruoli senza invadere il campo degli altri, ma dando quel contributo di positività che le aziende devono dare: e cioè aiutare gli incontri tra i Paesi e ridurre le tensioni», ci dice Tronchetti Provera); affronta poi la stagione del terrorismo negli anni ’70 e subisce delusioni dovute alla fine prematura della fusione con la Dunlop, al fallito tentativo di acquisto della Continental e alla partecipazione in controllo di Telecom Italia, esaurita dopo pochi anni per gli ostacoli frapposti dalla politica.

La milanesità

Pubblicità Pirelli con Carl Lewis

E nondimeno, o forse anche grazie a questi inciampi, oggi Pirelli è un’azienda solida e competitiva (ha 19 stabilimenti produttivi in 12 Paesi e circa 30.500 dipendenti). E continua a portare avanti la missione del suo fondatore: essere un vanto dell’Italia nel mondo, portare il nostro know how fatto di creatività e affidabilità, viaggiando dappertutto e, è il caso di dire, consentendo a tutti di viaggiare, e mantenendo intatta la propria identità tricolore, anche ora che il maggior azionista è una società cinese. E, al contempo, esportare la sua cifra più peculiare, quella della sua milanesità. Perché, come avverte De Bortoli, «Pirelli è Milano e Milano è Pirelli: la trovi nel Pirellone e nel grattacielo vicino, il Pirellino, nella stazione Greco Pirelli e nella storia del Corriere della Sera (di cui già Giovanni Battista fu socio, ndr)». E la trovi nella lunga sponsorizzazione sulla maglia dell’Inter e nel legame, a non tutti noto, col Milan: Giovanni Battista fu dirigente della società rossonera, il figlio Piero ne fu presidente e l’altro figlio Alberto per breve tempo calciatore.

È anche grazie a questo spirito glocal che la Pirelli «continua a essere un pezzo d’Italia che rappresenta la voglia di fare degli italiani e di farlo nel mondo», come ci dice Tronchetti Provera. Nonché «una bella signora che non smette di ringiovanire», per usare sempre le sue parole. Riempiendo di anima, il greco pneuma, i suoi pneumatici. E riuscendo grazie a essi a sollevarci un po’ da terra, a farci sentire un po’ meno terrestri. Restando però sempre fedele al suo vecchio motto, recuperato ora in uno spot celebrativo dei 150 anni: «La potenza è nulla senza controllo». Perché, si sa, a ogni potere corrisponde sempre una grande responsabilità.

Libero, 29 gennaio 2022

 

 

 

 

 

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