«L’assessoressa di Milano ha incontrato la ministra Lamorgese. Durante l’incontro la Lamorgese ha ribadito il suo ruolo di capo che garantirà la sicurezza per tutti gli italiani». Al di là del merito (lecito avere dubbi sulla Lamorgese), è questa la forma grammaticale corretta per risolvere la spinosa questione delle desinenze al femminile e problemi analoghi. O almeno è il suggerimento fornito da Giulio Mainardi nel gustoso Lingua italiana e questioni di genere (Reverdito, pp. 112, euro 14), un saggio costruito a mo’ di un manuale che sfida gli estremismi linguistici delle femministe (e le rigidità del fronte opposto) su base non ideologica, ma logica, etimologica e fonetica.
Mainardi parte dalla premessa, spesso dimenticata, che «il genere grammaticale è una categoria astratta e convenzionale, che non definisce né rappresenta necessariamente una qualità reale». In parole povere, se un vocabolo è di genere grammaticale maschile o femminile, ciò non significa che la cosa cui si riferisce sia realmente di genere maschile o femminile. Prendiamo ad esempio termini come cono, bene, nuoto, pesce, pomeriggio: sono di genere grammaticale maschile, ma non definiscono certo cose maschili. Lo stesso dicasi di parole di genere femminile quali sfera, bontà, corsa, balena, sera, che non si riferiscono a concetti, oggetti o esseri viventi di per sé femminili.
Avvocata e direttrice
Quando invece si parla di esseri umani, di solito le desinenze in –a o in –o ed –e designano, anche a livello reale, l’appartenenza al genere femminile o maschile. E questa, avverte Mainardi, è la conferma di una diversità di trattamento per maschi e femmine, che non ha niente a che fare con la discriminazione. Ma riguarda differenze reali che è giusto preservare. Pertanto, ben vengano parole diverse per indicare professioni svolte dagli uni o dalle altre: se esistono maestro e maestra (dal latino magis, più), perché non possono esistere ministro e ministra (dal latino minus, meno)? Del resto, il termine ministra ha una tradizione nobile, essendo stato usato da Dante, Boccaccio, Tasso, Alfieri e Foscolo.
Più cautela ci vuole con altri termini indicanti professioni al femminile: se è meglio avvocata di avvocatessa, vista l’origine etimologico-religiosa (avvocata, dal latino advocata, è un attributo della Madonna), andrebbe evitato capa al posto di capo, perché capo nel suo senso letterale fa riferimento alla testa e non è una parola declinabile al femminile. Per altre ragioni, cioè per il fatto che le parole terminanti in –e di solito restano invariate al femminile, sono da non utilizzare vocaboli come burocrata (si scelga la burocrate), presida (sempre meglio la preside) o giudicessa (si dica la giudice). Per parole maschili che finiscono in –sore o –tore è da scongiurare poi la versione femminile in –sora o –tora, attribuita storicamente a professioni di basso livello sociale. E quindi, nota Mainardi, sarebbe contraddittorio usarla «oggi, che si vorrebbe attribuire una pari dignità a uomini e donne — oltreché alle diverse professioni, anche “basse”». Così, anziché assessora, è giusto utilizzare assessoressa, in luogo di direttora è preferibile direttrice, al posto di difensora è più opportuno difenditrice.
Articoli e plurali
Se è bene declinare al femminile parole indicanti mestieri, è assurdo privare il cognome femminile dell’articolo davanti, come succede per i cognomi maschili, in nome di una presunta parità dei sessi che diventa invece discriminatoria. Nel ricorso a espressioni come «Merkel, Cristoforetti, Cartabia» invece di «la Merkel, la Cristoforetti, la Cartabia», a detta di Mainardi, «c’è la percezione che la condizione femminile sia inferiore intrinsecamente: mentre la condizione maschile è il modello a cui aspirare e conformarsi. Per combattere il maschilismo, non si dovrebbe certo eliminare un carattere distintivo della femminilità». Per cui si continui pure a utilizzare l’articolo davanti a cognomi di donne.
Risolvibile in modo altrettanto conservativo è la questione del maschile inclusivo, cioè dell’uso di termini maschili in senso neutro per indicare un individuo generico (il colpevole non è stato trovato, il cliente ha sempre ragione) e un gruppo di persone indeterminato («gli elettori, i cittadini, gli italiani»). L’obiezione femminista è che l’utilizzo del maschile in chiave universale escluderebbe le donne. Ma questa forma non presenta alcuna ambiguità: nel momento in cui si scrive «Tutti gli uomini della Terra vogliono essere felici», nessuna persona di buon senso penserebbe che si allude solo agli esseri umani di sesso maschile. E poi l’alternativa, cioè la versione anche al femminile di questi termini generici, sarebbe inutilmente verbosa: la frase evangelica «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» diventerebbe «Beati e beate i poveri e le povere in spirito, perché di essi e di esse è il regno dei cieli», facendo perdere tutta la bellezza e l’efficacia del messaggio.
Chiocciole, asterischi e scevà
In quest’ambito rientra la battaglia per il ricorso a segni grafici neutri, onde rispettare i cosiddetti individui non binari. Da qui l’utilizzo, al posto delle desinenze con vocali, di chiocciole («Un@ brav@ maestr@), asterischi (Sono felicissim* di rivedere *l* mi* amic*) e scevà, il simbolo tanto amato dalla Murgia. Ma ciò, sottolinea Mainardi, snatura la lingua, in quanto questi simboli non corrispondono ad alcun suono e «alterano le strutture dell’italiano al livello più profondo e prezioso, quello delle combinazioni dei suoni». Pronunciare frasi come «L genitor de bambin son pregat di aspettare ferm» avrebbe anzi un effetto comico, degno del fantozziano «direttor lup mann figl di putt».
Come dire, forme lessicali simili si potranno anche scrivere ma non si possono sentire. In tutti i sensi.
Libero, 16 gennaio 2022