«E noi, che pensiamo alla elevata felicità, sentiremmo la commozione, che quasi ci sconcerta, quando una cosa felice cade». Ci sono venuti in mente i versi delle Elegie duinesi di Rilke, che scandiscono il libro Castelli di Rabbia di Alessandro Baricco, quando abbiamo letto ieri la notizia della leucemia di cui soffre lo scrittore italiano. Abbiamo avvertito la commozione di chi scopre con sconcerto la fragilità di un uomo felice.
Ma, insieme a quell’incrinatura, abbiamo sentito nelle parole di Baricco, scritte in un post su Facebook, il sublime dono dell’ironia e del distacco, la capacità di sorridere di eventi infausti e prendere distanza da sé, quasi fosse poca cosa il nostro destino individuale. «C’è una notizia da dare e questa volta la devo proprio dare io, personalmente. Non è un granché, vi avverto», ha esordito il fondatore della Scuola Holden. «Cinque mesi fa mi hanno diagnosticato una leucemia mielomonocitica cronica. Ci sono rimasto male, ma nemmeno poi tanto, dai». Nel suo breve racconto, stavolta sì, autobiografico c’era il rovescio esatto di quanto diceva Pessoa, secondo cui la letteratura è la dimostrazione che la vita non basta: e invece no, è la vita la conferma che la letteratura non basta. Nei momenti critici, nei passaggi dolorosi o complessi, non ti aggrappi mica alla fama, ai libri scritti e a quelli letti, contano poco l’autore e il personaggio che si è diventati o i personaggi che ci si è inventati o in cui ci si è imbattuti; non ci si attacca alle pagine, ai compagni di carta, alla gloria imperitura dello scrittore. Ma ci si attacca alle persone care, a quelle che ci accompagnano nel cammino e danno senso al nostro viaggio.
È vero, Baricco faceva vedere un libro nella foto che accompagnava il post, Il Circolo Pickwick di Dickens, ma il romanzo stava lì, richiuso sul vassoietto del suo carrellino di ospedale. Le sue parole di affetto e gratitudine andavano invece a persone vive e vere: «Mi va ancora di dire», scriveva lui, «che percepisco ogni momento la fortuna di vivere tutto questo con tanti amici veri intorno, dei figli in gamba, una compagna di vita irresistibile, e il miglior Toro dai tempi dello Scudetto. Sono cose, le prime tre, che ti cambiano la vita. La quarta certo non te la guasta». Una donna da amare, dei figli cui voler bene, degli amici con cui condividere ricordi e sogni, e una squadra per cui tifare. È racchiuso tutto qui il destino umano della felicità. E non è mica poca cosa, anzi. Tutto il resto è contorno. Compresa la scrittura, compresa la letteratura.
Fratelli di sangue
In questo elogio dei rapporti umani c’è spazio per una persona in particolare che assurge al ruolo non solo di accompagnatrice e spettatrice ma di donatrice e protagonista del racconto. È la sorella di Baricco, che ha deciso di donare le cellule staminali che dovrebbero aiutare lo scrittore ad affrontare la malattia e a vincerla. «Quando hai una malattia del genere la cosa migliore che puoi fare è sottoporti a un trapianto di cellule staminali del sangue, cosa che farò tra un paio di giorni», continuava Baricco. «A donarmele sarà mia sorella Enrica, donna che ai miei occhi era già piuttosto speciale prima di questa avventura, figuriamoci adesso». Secoli di mitologia e letteratura che raccontano lo scontro tra fratelli, da Abele e Caino a Romolo e Remo a Eteocle e Polinice, venivano improvvisamente spazzati via. Qui emergeva un atto di pura gratuità dettato dall’amore fraterno, esempio di cosa significhi davvero essere fratelli di sangue, disposti anche a donare il proprio, di sangue. E c’era semmai l’evocazione di rapporti letterari di simbiosi e complicità, come quello dei fratelli Hansel e Gretel o delle sorelle Bennet di Jane Austen.
Questo legame e questo dono ci ricordano che la vera fraternità non si esercita come utopia universale ma a partire da chi ci è vicino, che essa non è un mito rivoluzionario, un ideale buonista e umanitario o una vaga professione di fede per cui “siamo tutti fratelli”, ma è una sorte che si incarna nelle nostre vite. E ci offre la prima cura e risposta alla nostra umanissima invocazione di aiuto. «Fratelli, parola tremante nella notte, implorazione sussurrata di soccorso all’uomo presente alla sua fragilità», diceva Ungaretti. Che, pronunciando quella parola, sapeva di non essere mai stato tanto attaccato alla vita.
Libero, 23 gennaio 2022